Piacenza e la Guerra ’15-‘18: atti del convegno 2014

Piacenza e la Guerra  

Atti del convegno (PDF 2.667 Kb per gentile concessione dell'editore) organizzato
dal Comitato di Piacenza dell'Istituto per la storia del Risorgimento Italiano
e dalla Banca di Piacenza tenutosi
a Piacenza il 25 ottobre 2014

Presentazione e
commenti di Gian Paolo Bulla e Ippolito Negri

Piacenza,  Palazzo Galli - 2 marzo 2015

 


 

Francesco Perfetti: La Grande Guerra, a Piacenza - Introduzione

Il professor Perfetti, come detto da Piero Melograni, ribadisce il carattere di «prima esperienza collettiva degli italiani» che poggia sull'esperienza di cameratismo e di condivisione delle fatiche e dei sacrifici in trincea e nelle retrovie. Non solo, l'impegno bellico comportò forzatamente anche una relativa modernizzazione in campo industriale e un necessario rafforzamento dello stato e dell'esecutivo; questi ultimi fatti in qualche modo ebbero risvolti intrisi di autoritarismo che, nella difficoltà di ritornare presto alla normalità post-bellica, facilitarono una deriva propriamente autoritaria.


 

Presentazione del volume: Piacenza e la GuerraGiuseppe Cattanei: : La politica agraria ed economica piacentina negli anni della Guerra.

Alcuni dei relatori si sono avvalsi dei materiali conservati nell’Archivio di Stato di Piacenza avviando o riprendendo percorsi di ricerca personali e non. Il primo di questi è Giuseppe Cattanei che prende in considerazione uno dei suoi “cavalli di battaglia”, la documentazione del Consorzio Agrario di Piacenza e quel mondo agricolo che espresse in definitiva la massa umana in armi, i «fanti - contadini». Il Consorzio Agrario nasce nel 1900 ad opera di 49 soci esponenti innovatori del mondo agricolo e assorbe la prima Federconsorzi italiana attiva dal 1892; Piacenza si distinse insomma nella modernizzazione della produzione e degli scambi nel settore agrario.
Cattanei analizza la truttura e gli organici dell’impresa che ovviamente deve fare i conti con l’emergenza. Esamina gli impegni e le esposizioni finanziarie, quindi scritture sociali e bilanci degli anni della guerra e ne ricava un quadro chiaro: in un periodo in cui molte erano le difficoltà nel reperimento delle materie prime (fosfati, carbone, sementi, ecc.) i ricavi aumentarono per l’incremento delle forniture civili e militari in generi alimentari, anche di prima necessità, e macchine. Insomma si verificò quella che si può definire una trasformazione in senso industriale della originale struttura cooperativa con produzioni anzitutto nel settore dei concimi e dei panelli per il bestiame. In tal modo gli utili netti del 1918 furono superiori a quelli del 1915 e nello stesso 1918 il Consorzio poté acquistare la sede della Banca Popolare, il Palazzo Galli che la banca aveva acquistato dai Galli nel 1872. L’anno dopo, nel 1919, il presidente Gustavo Della Cella usava nel suo discorso inaugurale parole colme di speranza per la ripresa del Paese; tuttavia il nuovo presidente Marsilio Fioruzzi l’anno dopo si mostrava più perplesso non avendo riscontrato l'avvento di «una Pace che portasse con sé il febbrile lavoro per una pronta restaurazione economica». (gpb)


 

Ersilio Fausto Fiorentini: : Il Magistero del Vescovo di Piacenza Giovanni Maria Pelizzari e la Guerra e Bruno Perazzoli: La partecipazione dei cattolici piacentini alla Guerra


Quelle di Fausto Fiorentini e Bruno Perazzoli sono due relazioni assolutamente complementari ed esaurienti – e quindi da affrontarsi unitariamente - per capire quale fu l’atteggiamento e quali furono i sentimenti anche contrastanti della Chiesa e dei cattolici piacentini di fronte alla Grande Guerra. All’inizio non potevano per forza di cose discostarsi molto dai contenuti della lettera ai capi di stato belligeranti scritta da Benedetto XV, con la celebre definizione della guerra come “INUTILE STRAGE”. Così da Sarajevo sino al “maggio radioso”, i cattolici si allinearono in doppia soluzione come tutti gli italiani sul non interventismo o sull’interventismo.
Fiorentini s’è maggiormente concentrato sulla voce più ufficiale della nostra chiesa delineando la figura del vescovo Giovanni Maria Pelizzari in tutte le sue sfaccettature. Carattere non facile, criticato perché autoritario, ma anche con un ruolo di pastore attento alla sofferenze delle sue pecorelle come dimostrano le frequenti visite agli ospedali militari di cui s’era riempita Piacenza. Ci ricorda come fu attento a cogliere le indicazioni del Papa; come dispose che ad ogni messa venisse recitata la preghiera PRO PACE; come suggerisse di fare tridui per i soldati e anche di astenersi poi dai divertimenti. Dal canto suo – aggiungo - comunque per tutta la guerra non rimunciò a recarsi a Montecatini presso l’hotel Imperiale e a Fiuggi per le cure termali. Pelizzari si spese molto durante la guerra per i sacerdoti mobilitati e per evitare che fossero richiamati, rischiando anche qualche bonario rimbrotto da parte delle autorità statali. Con insistenza più volte ebbe a lamentarsi per le requisizioni di immobili. Cercò di evitare che dopo il seminario di Bedonia e l’Alberoni fosse requisito anche il seminario cittadino , ottenendo una risposta che la dice lunga sui rapporti tra Chiesa e Stato risorgimentale. Essa più o meno suonava così: “per ora non è necessario, ma se lo fosse eviti di chiedere appoggi al ministero perché sarebbero inutili, semmai pensi da subito alle soluzioni alternative”. Era la primavera del 1917 e dopo Caporetto anche l’immobile di via Scalabrini diventò un ospedale.
Perazzoli allarga l’inquadratura su tutto il mondo cattolico, ricordandoci anche una figura di socialista decisamente contrario alla guerra, Nino Mazzoni, parlamentare tale anche trent’anni dopo alla Costituente. D’altra parte persino i più accessi neutralisti, anche locali, ebbero via via a convertirsi come Teodoro Moneta, Nobel per la pace nel 1907 e deciso interventista nel 1915.
Se c’è una condanna in termini assoluti della guerra tuttavia rimane sempre grande prudenza per non offrire il fianco alle accuse di anti-italianità da parte degli anticlericali. Comunque con l’inizio della guerra cambia l’atteggiamento complessivo dei cattolici e del clero e, d’altra parte, lo Stato si rivolge proprio al clero per avere un aiuto non tanto nella propaganda quanto nell’informazione spicciola. Le direttive che partono dal Vescovado vanno in questa direzione: solidarietà verso i soldati e informazioni ai cittadini, dai semplici consigli ai mobilitati su quali indumenti portarsi da casa all’uso delle campane per eventuali allarmi aerei. D’altra parte prudenza vuole che si eviti che gli anticlericali sfruttino un presunto pacifismo per attaccare la Chiesa. In questo senso – da cronista – posso citare il diniego a una processione richiesta dal parroco di Bedonia all’indomani dell’entrata in guerra. Così come mi viene in mente la vicenda del parroco di Mareto per il quale era stato emesso un ordine di cattura solo perché in una discussione con il vicario foraneo di Farini aveva fatto la parte del diavolo – nei giorni immediatamente precedenti il 24 maggio – sostenendo la ragioni degli austriaci in contrapposizione a quelle dei francesi.
A riguardo della necessità di evitare che gli anticlericali cogliessero ogni occasione posso citare l’episodio di don Cesare Costantino Molinari, parroco di Ozzola, richiamato alle armi in un reparto di sanità, e comandato di ronda da un tenente che con regolarità e senza che ci fosse una vera necessità lo portava al casino. Don Molinari racconterà i fatti al vescovo che otterrà dall’Ordinario militare di farlo nominare cappellano. Col proseguire della guerra e la formazione di organizzazioni di assistenza per i militari, sarà proprio il mondo cattolico a impegnarsi a fondo, sia per ottenere attraverso il Vaticano informazioni sui prigionieri, sia per mobilitare i cittadini a fianco delle autorità statali nelle opere assistenziali per i soldati al fronte e i feriti presenti in città.
Pure l’apporto della gioventù cattolica fu importante nel conflitto, infatti Perazzoli ci ricorda gli interventi di Agostino Gemelli e il gran numero di medaglie ottenute dai giovani cattolici.
Come cronista, mi permetto di aggiungere qualche dato: su circa 560 sacerdoti della diocesi ne furono mobilitati un’ottantina, di questi una quindicina svolse funzioni di cappellano militare, a volte in retrovia, ma anche in prima linea come don Giovanni Serafini – decorato di medaglia di bronzo al valor militare - disperso sugli Altipiani nel dicembre 1917 nel pieno della Battaglia di arresto. Altri due sacerdoti cappellani, don Giuseppe Maggi e don Pietro Poggi, morirono per cause di servizio. La maggior parte dei mobilitati prestò servizio nei reparti di sanità e in qualche caso vennero decorati: don Francesco Brianti, don Alcide Marina, che diventerà rettore dell’Alberoni e poi ancora vescovo e nunzio apostolico; il già citato don Molinari, don Emilio Rossi, don Francesco Pallaroni ebbero croci al merito. Molto più lungo l’elenco dei seminaristi caduti e quello dei superstiti decorati, su tutti Giorgio Grignaffini, medaglia d’argento al valor militare caduto in un reparto di sanità e altri arrivati al sacerdozio nel dopoguerra: don Umberto Bracchi, don Pietro del Chiappo, don Adeliso Massari, don Pietro Parisi, don Giuseppe Pizzoni, don Giacomo Veneziani e don Carlo Boiardi che diventerà vescovo di Massa-Carrara. Questi ultimi due certamente erano tra le truppe di prima linea.
Anche in questi termini la partecipazione pratica ed attiva dei cattolici fu consistente; nella precisa cornice delineata dalle relazioni di Fiorentini e Perazzoli non mancano quindi i dettagli che la cronaca spicciola può colorare. (in)


 

Elisa Maria Gennaro: La propaganda a Piacenza attraverso l'attività del Commissariato generale per l'assistenza civile e la propaganda interna (1918-1919)


La Grande Guerra, con la prima effettiva mobilitazione di tutti gli strati sociali, contribuì a sviluppare e ad affinare strumenti, apparati e metodi di propaganda. In qualche misura essi furono addirittura istituzionalizzati. Sorsero dappertutto comitati ed associazioni, privati o para-pubblici, impegnati dapprima nel campo assistenziale poi nella propaganda; si costituirono come Opere Federate a livello di province e di comuni e un certo punto si decise di coordinarli attraverso un Commissariato Generale per l’assistenza civile e la propaganda, presieduto dal cesenate Ubaldo Comandini, che fu operativo dall’inizio del 1918 alla primavera del 1919. Esso, finanziato dal Ministero dell'Interno, ebbe poteri pari a quelli di un ministro. A Piacenza il Segretario del Commissariato Provinciale e del Comitato di preparazione civile di Piacenza fu Ricciardo Pallastrelli e il carteggio di questi enti ci è arrivato attraverso l'archivio comunale di Piacenza ora depositato presso l’Archivio di Stato. Fotografie e documenti del Commissariato centrale e di quello piacentino furono utilizzati nella mostra del dicembre 2010 La guerra della Nazione. Italia 1915 – 1918 e in quella di un anno dopo Ragazzi. Piacentini alla guerra del '15 - '18.
Accanto alle attività di beneficenza e di vario sostegno (si pensi ai prestiti e alle lotterie) che si espletavano anche tramite le numerose istituzioni rivolte alle famiglie delle vittime, ai profughi e ai bisognosi si affiancò la mera propaganda con il preciso scopo di combattere il cd. disfattismo. Conferenze, manifestazioni, pubblicazioni, pressioni insomma esercitate per lo più da esponenti della media e piccola borghesia cittadina sulle masse campagnole dove erano maggiori le perplessità e le contrarietà. Fino a censure più o meno larvate come quelle esercitate sulla stampa e nelle sale cinematografiche. Pallastrelli riferisce delle iniziative condotte dalle Opere federate, dal Commissariato e dai Comitati piacentini; fra i dati ricordiamo gli oltre 31 milioni raccolti per il Prestito Nazionale. (gpb)

 


 

Eugenio Gentile: La neutralità a Piacenza

Proprio ieri, parlando con un laureando che sta ultimando una tesi sull’avvento del fascismo a Piacenza visto attraverso i giornali locali, citavo la relazione del generale Gentile come esempio di una ricostruzione minuziosa per capire come ci si muoveva a Piacenza in un dato periodo. Nel nostro caso lo strano anno in cui si rimase sospesi tra neutralismo e interventismo.
Gli organi di stampa del periodo sono stati scandagliati a fondo; Libertà, Nuovo Giornale, il Piccolo, il Progresso davano informazioni e facevano opinione, ma come sottolinea Gentile erano piccola parte se teniamo conto che l’analfabetismo era ancora al 45% in Emilia.
Tuttavia il dibattito si svolse in modo articolato tra interventisti e non interventisti dividendosi i primi poi tra coloro che parteggiavano per la triplice alleanza e chi per la triplice intesa. Nel dibattito entrarono anche i cattolici; abbiamo visto in precedenti relazioni come l’autorità militare si rivolse spesso all’autorità ecclesiastica perché attraverso il clero fossero fatte arrivare al popolo le comunicazioni fondamentali, e in un secondo tempo anche la propaganda per il fronte interno.
Gentile nel suo saggio ci offre un quadro minuzioso dell’evoluzione delle diverse posizioni, che si svilupparono anche a Piacenza sino ad arrivare alla dichiarazione di guerra, analizzando negli aspetti socioeconomici la società piacentina del tempo. Gli spunti alla lettura sono quindi innumerevoli e si rimarca come spesso gli interventi di peso, gli editoriali sono il più delle volte riprese di altri quotidiani nazionali in una equa distribuzione delle posizioni. Si segnala tra i più presenti su Libertà la sigla W come Wladimiro, nome de plume che firma interventi che risentono profondamente del neutralismo giolittiano (arriva a chiedersi se sia il caso di rischiare milioni e uomini per quei 150 mila irredenti trentini e giuliani che vogliono diventare italiani). E mi piace ricordare anche la citazione di un intervento di Marcello Prati, il figlio di Ernesto, fondatore del giornale, corrispondente da Londra per la Stampa. Il titolo “Se l’Inghilterra fosse l’Italia” ci introduce a considerazioni che ben si adattano anche all’attualità. Prati sottolinea come, una volta decisa la neutralità, gli inglesi si fossero chiusi nel massimo riserbo, anche censurandosi, lasciando la voce ad un solo organo ufficiale, per evitare che le dispute continue tra interventisti e non interventisti, avessero a condizionare anche i rapporti con i paesi stranieri.
Non mancarono, mentre ci si organizzava con un Comitato di preparazione civile, manifestazioni di studenti e di popolo accanto ai dibattiti ufficiali, sino al 23 maggio 1915. Intanto il 21 si era saputo che il parlamento aveva attribuito al Governo poteri straordinari “in caso di guerra”. L’aria ormai era quella e Gentile ci riporta l’intervento tenuto quel giorno in consiglio comunale dal sindaco Ranza: “Da Piacenza Primogenita, seconda a nessuno, deve elevarsi il voto più ardente acché si compiano i destini di Italia con la liberazione delle terre redente”. Che se non è una dichiarazione piacentina di guerra all’Austria poco ci manca. Nello stesso giorno alle 10,30 re Vittorio Emanuele presentò la dichiarazione di guerra a partire dalla mezzanotte del 24 maggio 1915. Per oltre quaranta mesi i nostri nonni e bisnonni sarebbero stati in guerra. (in)

 


 

Filippo Lombardi: Lutto pubblico e lutto privato nella Grande Guerra, monumenti ai caduti ed opuscoli di necrologio


Lombardi da qualche tempo si è dedicato anima e corpo alla ricerca sul tema della Grande Guerra, fondando su Facebook il gruppo “Piacenza in grigioverde” e con questa etichetta curando l'uscita di una serie di pubblicazioni presso un editore pavese. I lutti di massa e l'esperienza dei cd. “trinceristi” sopravvissuti determinarono subito, alla fine della guerra, una diffusa volontà di rendere omaggio ai caduti e agli offesi, in particolare attraverso concrete testimonianze e fenomeni simbolici come quello del milite ignoto. Esso, scelto ad Aquileia fra undici dalla madre triestina di in caduto irredentista e tumulato nel 1921 sull'Altare della Patria, unì idealmente tutta la nazione che accompagnò la salma nel tragitto verso Roma. Poi si pensò a viali e a parchi della Rimembranza, ma soprattutto si costruirono monumenti che divennero un elemento distintivo del paesaggio. In molti casi furono promossi dalle associazioni combattentistiche e poi furono in qualche modo adottati dalle amministrazioni locali. L'autore dà conto delle diverse tipologie di realizzazione, affidate a scultori noti o malauguratamente prodotti in serie o limitate a iscrizioni come la targa bronzea col bollettino della Vittoria che è affissa in molti siti; insomma ci si muove a seconda delle disponibilità finanziarie. Si verificarono una certa ridondanza e una grande varietà tanto da produrre una legislazione ad hoc, urbanistica e di tutela, a causa soprattutto del boom verificatosi nel periodo 1927-1928. Terminata la II Guerra Mondiale – che si ricordi significò la perdita di alcuni monumenti in metallo fusi per le necessità belliche – in genere si decise di ricordarne le vittime aggiungendole agli elenchi presenti sui monumenti già esistenti, trasformati così in monumenti ai caduti di ogni guerra.
L'autore dopo il lutto pubblico accenna al lutto privato, quello ad esempio contenuto nei 2300 opuscoli di necrologio censiti nel 1998, la maggioranza dedicata a personaggi illustri. Lombardi però ne ha scovati altri stampati a ricordo dalle famiglie in particolari ricorrenze; per Piacenza sono 10 e si riferiscono a 8 caduti, tutti ufficiali eccetto l’aviatore Giovanni Nicelli di Lugagnano e l’infermiera volontaria Maria Barbara Radini Tedeschi. (gpb)

 


 

Luigi Montanari: La Guerra in un paese di provincia


Montanari raccontandoci le vicende di una piccola comunità ci fa capire quali furono gli effetti della guerra nei paesi, come si modificò la vita corrente al di là degli aspetti più noti legati al sacrificio dei caduti che riscontriamo sui monumenti. Di fatto quindi fa una operazione di ricostruzione di storia minima che secondo la interpretazione di Marc Bloch, fornisce contributi fondamentali per la comprensione della storia con la S maiuscola.
Dalla relazione di Montanari, ad esempio, ricaviamo un aspetto che viene spesso dimenticato, un effetto collaterale quasi sconosciuto, cioè di fatto la soppressione della vita amministrativa. Buona parte degli amministratori pubblici più o meno giovani era mobilitata, se poi consideriamo le classi richiamate, che vanno dal 1876 al 1899, possiamo capire come, con un elettorato passivo e attivo solo al maschile, anche i comuni fossero svuotati di persone in grado di amministrarli. In qualche caso potevano funzionare solo grazie alle licenze che venivano richieste dai sindaci e non sempre questo erano accordate, sia per gli eletti sia per i tecnici. E al tempo stesso se c’erano difficoltà ad amministrare erano anche aumentati i compiti di chi rimaneva. Quindi il modello ricostruito di Carpaneto Piacentino ci permette di capirecome fosse difficile la vita anche per chi non era al fronte.
Con un esercito fatto di contadini, in una zona prevalentemente agricola, si ponevano anche problemi di mobilità della manodopera residua. E a conciliare domanda e offerta dovevano provvedere comunque i comuni. Così pure in capo ai comuni andava un minimo di assistenza anche materiale mediante l’assegnazione dei contributi alle famiglie di richiamati e l’applicazione del calmiere. Inoltre andava governato il volontariato di assistenza a favore dei militari e un volontariato in tutte le sue molteplici applicazioni pratiche: raccolta di coperte (ad es. nel 1917), preparazione di capi di lana per le truppe sulle Alpi, preparazione e invio dei pacchi per i prigionieri le cui condizioni erano pessime, soprattutto nell’ultimo anno di guerra dopo Caporetto. La duplice monarchia non era in grado di assistere le proprie popolazioni figuriamoci i prigionieri italiani… Vi provvedevano i comitati di assistenza sorti ovunque, i fornai non potevano produrre gallette se non su autorizzazione prefettizia, non poteva essere spedito pane comune, erano i comitati e i sindaci a dover chiedere e ottenere le autorizzazioni dai prefetti.
Dopo Caporetto si pongono altri problemi oltre a quelli della propaganda sul fronte interno. La nostra provincia fu interessata a due aspetti; da una parte vennero raggruppati i reparti della seconda armata che ancora avevano una organizzazione, dall’altra fu allestito a Gossolengo uno dei campi di raccolta per gli sbandati. Con quel che restava della sua Seconda a Fiorenzuola il generale Luigi Capello pose il comando della Quinta Armata che raccoglieva una decina di brigate di fanteria e altrettanti battaglioni alpini. E a Carpaneto – ricorda Montanari – tra Chero e Nure vennero accantonati reparti in ricostituzione delle brigate Firenze e Roma. Questo comportò per alcuni mesi problemi anche per le popolazioni locali, sia per quanto riguarda gli alloggi sia per la sussistenza.
Poche e frammentarie le testimonianze locali (Montanari ricorda una riunione al Teatro Sociale tenuta dal Generale Capello ai suoi ufficiali) ma si trovano autorevoli citazioni oltre che nel diario di Gatti (lungamente alla segreteria di Cadorna) in Ardengo Soffici e in Attilio Frescura che furono a Fiorenzuola come Ufficiali P, incaricati della propaganda quindi. Ed anche nelle lettere a Soffici di Ungaretti, la cui brigata Brescia era a Viarolo Taro e che prima di partire per la Francia nella primavera 1918 cercò vanamente di farsi trasferire a Fiorenzuola con il suo amico. Posso anticipare che questo capitolo sarà approfondito in un lavoro di prossima pubblicazione a Fiorenzuola. (in)

 


 

Massimo Moreni: I Pontieri nella Guerra


L’autore descrive le azioni e il comportamento dei Pontieri durante gli anni bellici. I Pontieri, Corpo medaglia d’oro al valor militare per gli 870 caduti e per il ruolo da protagonista svolto, attivo in guerra ed anche in pace nel soccorso alle popolazioni e nella prevenzione delle calamità, i Pontieri e i due fiumi che contrassegnarono la guerra, il Piave e l’Isonzo. Nel 1883 a Piacenza fu costituito il primo reggimento distaccato del Genio, il IV Pontieri, che all’inizio del 1915 annoverò 400 unità circa in 10 Compagnie. Esse nel corso del conflitto aumentarono: nel 1915 raggiungono il numero di 16, nel 1916 salgono a 19, nel 1917 i Pontieri sono ormai 10.000 distribuiti in 4 battaglioni, nel 1918 i battaglioni sono 6, le compagnie 41, le unità 14.000. E nel settembre dello stesso anno si ha il distacco delle Compagnie lagunari dal IV Reggimento Genio Pontieri con la formazione dell’VIII Reggimento Lagunari.
È il fiume Isonzo a contrassegnare le grandi battaglie mentre il Piave sancisce l’inizio e la fine di tutto, di quel sanguinoso periodo. Le battaglie isontine furono dodici e la dodicesima coincise con la rotta di Caporetto che riportò il fronte da dove si era cominciato, sul Piave ripassando il Tagliamento. L’Isonzo tocca infatti Caporetto (Kobarid in sloveno) e lambisce Gorizia, l’Isonzo cantato da Ungaretti nella bellissima poesia “I fiumi” scritta nell’agosto 1916 a Cotici vicino a S. Michele al Carso (nell’attuale comune di Savogna d’Isonzo).
Dopo la rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917 i Pontieri debbono distruggere i ponti fino alla linea del Piave e, assorbita l’offensiva austriaca del giugno 1918 (il 24 giugno da allora cade la festa del Corpo) i Pontieri allestirono alla fine di ottobre gli attraversamenti per le armate italiane affiancate da reparti francesi ed inglesi. Moreni elenca tutte le frenetiche operazioni di quei giorni che permisero alle truppe alleate di incunearsi fra le linee nemiche e di giungere fino a Trieste.
Un’annotazione finale. Fra i Pontieri illustri impegnati nella Grande Guerra Moreni ricorda Giovanni Ponti detto Giò (guarda un po’ il cognome!?) della classe 1891, uscito dal Regio Istituto Tecnico che poi divenne il Politecnico milanese. Ponti fu un notissimo ingegnere e progettò fra l’altro nel 1955 il Grattacielo Pirelli di Milano. (gpb)

 


 

Giuseppe Oddo: Il generale Maurizio Ferrante Gonzaga eroe del Vodice


Quando si parla di Grande Guerra molto spesso, troppo spesso, l’immagine che abbiamo degli alti comandi è quella del generale Leone caratterizzata da Francesco Rosi nel film “Uomini contro” (derivato da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu e per altro sconfessato dall’autore) oppure quella che non dissimile dei generali caratterizzati da Kubrick nel film “Orizzonti di gloria”.
Maurizio Ferrante Gonzaga tenente generale della 53ª divisione - così come ce lo racconta il generale Giuseppe Oddo - era di un’altra pasta, più vicino, se vogliamo, al mito alpino del generale Antonio Cantore che non all’intrigante, discusso e discutibile Pietro Badoglio. Sicuramente figlio del proprio tempo ma capace anche di farsi apprezzare e rispettare dai suoi soldati. E’ piacentino di acquisizione per legami di famiglia – come ci spiega Oddo - ma teniamocelo ben stretto. Rimando alla lettura della relazione per una biografia approfondita e mi limito ad alcune considerazioni.
Rileggendo pagine sulla decima battaglia dell’Isonzo, sui combattimenti della primavera del 1917 a Nord di Gorizia per la conquista della dorsale dal Monte Kuk al Vodice al San Michele, battaglie cruente e crudeli ci si rende conto che uscirne, da generale, non solo con gli onori militari ma con il rispetto dei propri uomini, non fosse facile, e fosse ancora più difficile, dopo pochi mesi, ottenere lo stesso risultato nella 11ª battaglia dell’Isonzo con il sanguinoso ennesimo attacco all’Hermada, chiave di volta munitissima della difesa del Carso sulla strada per Trieste, e con l’attacco vittorioso alla Bainsizza nel quale Gonzaga fu impegnato con la sua divisione venendo ferito per la prima volta. E ancora in linea fu ferito una seconda volta, meritando una medaglia d’oro, nei combattimenti per contenere, il 25 ottobre 1917, il dilagare degli austro-tedeschi nella valle del Natisone già raggiunta a ventiquattrore dallo sfondamento di Caporetto.
Qualcuno oggi forse storce il naso nei confronti del generale Gonzaga per gli incarichi successivi degli anni Venti, quando fu posto ai vertici della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale ma, come fece l’altro generale piacentino Gustavo Pesenti una decina di anni più tardi, entrò in rotta di collisione con le gerarchie del Regime venendo rimosso nel 1927. Ebbe il titolo di marchese del Vodice nel 1932 (pochi anni prima Badoglio con motu proprio reale era diventato marchese del Sabotino) e alla morte nel 1938 ebbe funerali di Stato. Insomma non possiamo certo ascriverlo alla cerchia ristretta del Regime ma a quella fedele alla Corona, come dimostra il comportamento del figlio Ferrante dopo l’8 settembre.
Ne approfitto per ricordare anche altri due generali piacentini nella Grande Guerra: Saverio Nasalli Rocca e Giuseppe Boriani. Saverio Nasalli Rocca, comandante della Seconda Divisione sul fronte Dolomitico il 24 maggio del 1915, fu rimosso non del tutto immeritatamente insieme al suo superiore Nava, comandante della 4ª armata, per i ritardi forse determinanti negli attacchi in Alto Cadore. A Giuseppe Boriani, generale dei bersaglieri, venne invece affidato, all’indomani di Caporetto, il comando della Divisione Speciale Boriani, imperniata sulle due brigate I e V, che dal 25 ottobre al 17 novembre costituì la retroguardia che evitò che il dilagare degli austro-tedeschi coinvolgesse anche la ritirata più a sud della Terza Armata che si attesterà poi sul Piave, mentre al Nord, tra Altipiano e Grappa, si sviluppava la Battaglia d’Arresto che porrà rimedio al disastro del 24 ottobre.
L’ultima annotazione: nei giorni di Caporetto e della ritirata al Piave furono 14 le medaglie d’oro a militari della seconda e terza armata; di queste due sono piacentine: quella di Gonzaga appunto per i fatti di Stupizza e quella del marchese Alessandro Casali caduto eroicamente sul Volkovniak. (in)


 

Fronte italianoValeria Poli: L’immagine urbana di Piacenza alla vigilia della guerra


Altra emerita studiosa e affezionata frequentatrice dell'Archivio di Stato, la Poli indaga «il caso locale inserendolo nel più ampio panorama nazionale». Così affronta dapprima il tema dell'urbanistica in generale che nella nuova Italia sul piano legislativo non viene trascurato: infatti nel 1865 escono delle specifiche norme che disciplinano i Piani regolatori edilizi, validi per l'ammodernamento dell'esistente, e i Piani di ampliamento previsti per le espansioni. Ciò che difetterà semmai è la pratica «realizzazione degli obbiettivi previsti dalle leggi stesse» in base a un preciso intendimento politico, tanto che un quadro organico si avrà solo con la legge urbanistica del 1942.
A Piacenza vi era una certa tradizione nel campo del disegno della città, lo stesso Pier Luigi Farnese nel 1547 istituì la Congregazione di politica e ornamento. Un'attenzione ripresa con maggiori ambizioni nell'Ottocento, sia con austriaci e Borbone sia con il nuovo Regno. Si dovrà fare i conti con il limite fisico della cinta muraria e con la presenza dei comuni foranei; a Piacenza tali vincoli, assieme alle numerose servitù militari, ritardarono interventi massicci e la distruzione delle mura come avvenne invece a Parma alle fine del secolo XIX. Nel 1867 il Regolamento comunale di Polizia e Ornato prevede la collaborazione di una Commissione d'Ornato.
Nel secondo Ottocento non si ritenere Piacenza una città florida, difettando in manifatture e in un retroterra intraprendente; essendo poche le risorse private si canalizzano gli interventi soprattutto nelle opere pubbliche, nel settore della sanità e dell'istruzione e nel desiderio di ammodernamento che traduce spesso nell'ampliamento e nel raddrizzamento delle vie raggiunto con l'abbattimento di case e di edifici storici (ad es. S. Alessandro e S. Maria degli Angeli). Fra il 1848 e la Guerra assistiamo a una serie di opere ingenti, a volte suffragate dalla necessità di impiegare della manodopera disoccupata: la stazione ferroviaria col piazzale e i giardini antistanti, l'Ospedale Militare del 1869, l’eliminazione delle Porte e la realizzazione delle barriere daziarie, la complessa sistemazione della zona che porta al Po che vede lo spostamento dell'asse verso Milano più a est della Porta Borghetto, l’abbattimento di numerosi edifici e la costruzione nel 1908 del ponte in muratura. L'autrice analizza nel dettaglio le fasi dell'adeguamento di tutta l'area prospiciente quella che era definita la Via Milano che, attraverso una serie di modifiche e di affidamenti, porta all'allineamento del tracciato verso il nuovo ponte sul Po e di conseguenza verso sud lungo Largo Battisti e Corso Vittorio Emanuele fino al nuovo Condominio Edilizia e al Passeggio Pubblico che, fra l'altro, permetterà, negli anni del sindaco Francesco Pallastrelli, di disporre meglio l'illuminazione e la rete tramviaria. L'ultimo capitoletto è dedicato al tentativo di definire uno stile urbano il più possibile distintivo, insomma “nazionale”. Accanto a costruzioni di varia ispirazione disseminate in tutto il centro storico si possono individuare esempi di uno stile della «nuova Italia» nel Palazzo della Provincia di Manfredo Manfredi e nei lavori di Arnaldo Nicelli. La Poli conclude il suo saggio con le amare parole di Leopoldo Cerri del 1920 che d’altra parte compendia la modernità nel «brutto e ignobile cemento». (gpb)

 


 

Giovanni Sali: Il contributo straordinario della veterinaria militare


La relazione che il professor Giovanni Sali ci ha proposto ha aperto un sipario su un capitolo insolito. Nell’immaginario collettivo sono entrati i muli degli alpini in Grecia e in Russia e, con un po’ di compiacenza, si ricorda la carica del Savoia cavalleria guidata dal colonnello Bettoni come momento epico e un po’ demodé dimenticando che anche nella Blitzkrieg i tedeschi avevano una rilevante componente della logistica a trazione animale. Eravamo nella seconda guerra mondiale, quindi possiamo immaginare quanto fossero ancor più determinanti cavalli e muli nella Grande Guerra. Non è un caso che dalle cronache spicciole uno dei primi riscontri che si trova accanto alla mobilitazione è la requisizione dei quadrupedi.
Non fu una guerra della cavalleria, l’ unico episodio fu la carica di Pozzuolo subito dopo Caporetto, preceduta di qualche giorno dall’episodio di Stupizza citato prima a proposito del principe Gonzaga. Ma cavalli e muli dovevano pur essere curati e tenuti in efficienza, essendo uno degli assi portanti di un sistema logistico mai così imponente. Salmerie ed artiglierie someggiate, reparti sanitari someggiati, cucine da campo, marmitte per portare in linea il rancio, tutto si muoveva con i quadrupedi.
Grande importanza quindi del servizio veterinario che Sali ci descrive con competenza, accennando anche all’altro versante del servizio, quello altrettanto fondamentale della prevenzione in favore della Sussistenza. Ancora trent’anni fa tra passo San Pellegrino e la Marmolada, zona dolomitica non troppo frequentata, si ritrovavano depositi di carne in scatola abbandonati della quarta armata in ritirata dopo Caporetto. Ma non era solo carne in scatola, a ridosso del fronte e nelle retrovie si produceva pane con i forni Weiss, c’erano depositi di carni e macellerie e anche qui il lavoro dei veterinari militari era fondamentale.
Infine - ci ricorda Sali – la prevenzione sanitaria coinvolgeva non solo i medici ma anche i veterinari per il tipo di patologie più diffuse al tempo, spesso comuni a uomini e animali. Vi invito a leggere con attenzione questa insolita relazione riservata sembrerebbe agli specialisti, i dati sono impressionanti: quasi 2 milioni e ottocentomila capi macellati (su un patrimonio di circa sei milioni), quindi 11 milioni e ottocentomila quintali a peso vivo pari a quasi sei milioni di quintali consumati dalla truppa, centinaia di migliaia di scatolette prodotte negli stabilimenti militari. Insomma anche il servizio veterinario militare fu chiamato ad uno sforzo non comune, sia per quanto riguarda il fronte sia per quel che riguarda il cd. fronte interno.
In margine alla relazione mi sento di aggiungere solo il ricordo di tre piacentini che sono riuscito a ritrovare nell’Albo d’oro; il tenente Paride Bersani di Piacenza veterinario del terzo reggimento artiglieria da montagna, morto nel giugno 1917; il tenente Francesco Bossi anche lui del terzo reggimento artiglieria da montagna morto il 16 dicembre del 1917 verosimilmente durante la Battaglia d’arresto; il capitano veterinario Ulisse Barbieri dell’11º reggimento d’artiglieria di campagna morto negli ultimi giorni di guerra il 28 ottobre 1918. Come si vede tre artiglieri, due degli alpini e uno dei reparti someggiati, quelli che appunto, per essere efficienti, dovevano tenere in efficienza anche i quadrupedi fidando sul servizio veterinario. (in)

"Come Piacenza visse la Grande Guerra", articolo di Anna Anselmi pubblicato sul quotidiano Libertà di lunedì 9 marzo 2015 (PDF 192 Kb per gentile concesione dell'editore)